lunedì 20 gennaio 2014

La macchina infernale

Lo scienziato aveva un'aspetto giovanile, ma non imberbe. Slanciato nel suo camice bianco, parlava con tono professionale e conciso, ora guardando la volontaria negli occhi, ora sbirciando i suggerimenti scritti sulla cartella che teneva salda fra le mani.
«In parole povere, con questo esperimento» spiegava «cercheremo di misurare le capacità di autocontrollo della persona in una situazione di stress». Francesca, comodamente seduta su una poltrona che rassomigliava per comodità e design a quella di un dentista, ascoltava con silenziosa attenzione, annuendo con lenti cenni del capo e con aria presa - le mani giunte con le dita intrecciate, che giocherellavano fra loro. «Nel corso di tutto l'esperimento» continuò il dottore «eseguiremo un monitoraggio delle sue funzioni vitali, ed in particolar modo di quelle cerebrali, eseguendo sia un elettroencefalogramma che una risonanza magnetica funzionale.»

«E quel televisore?» chiese Francesca, intrecciando un dito fra i lunghi capelli biondi e ricci, mentre con l'altra mano indicava uno schermo posto proprio davanti alla sua sedia. «Ah, quello?» fece lo scienziato «Quello servirà a rendere la situazione leggermente più... stressante...» emise un colpo di tosse, dunque riprese «Le forniremo in tempo reale un feedback visivo dell'esperimento, potrà cioè vedere cosa accade grazie alla telecamera che vede proprio sopra il monitor. Ma è solo un dettaglio, signorina. Non si deve preoccupare di nulla, anzi cerchi di rilassarsi e si goda l'esperimento. Sono certo che si divertirà.»

Congedatosi dalla paziente, lo scienziato fece un cenno al suo collaboratore, che gli diede il cambio. Mentre il dottore spariva dietro una porta insonorizzata, l'altro si mise ad armeggiare con le cinghie imbottite presenti sul poggiapiedi e sui braccioli della poltrona. Immobilizzati i piedi di Francesca, il collaboratore, anch'egli vestito di bianco, le sfilò gli stivaletti marroni e, quindi, i calzini di candida spugna; dunque, tramite una serie di laccetti, immobilizzò in posizione estesa le singole dita di ciascun piede.
Con la stessa meticolosità, assicurò le mani ai braccioli. «Perché anche le mani?» domandò Francesca.
«Come le ha già spiegato il mio collega» rispose gentilmente il collaboratore «Dopo i primi 20 secondi di attivazione, la macchina diminuisce o aumenta l'intensità dello stimolo in base ai decibel emessi dal volontario - in questo caso da lei.» Francesca lo guardò riducendo le palpebre a delle fessure. «Se lei potesse mettersi le mani davanti alla bocca» chiarì ulteriormente l'altro «influenzerebbe il feedback fornito all'intelligenza artificiale».

«Capisco!» esclamò Francesca, mentre il collaboratore, concluso il suo lavoro, avvicinò il misterioso macchinario ai piedi della ragazza, e con un cenno alla telecamera comunicava che l'esperimento poteva avere inizio. Francesca vide l'uomo allontanarsi chiudendo dietro di sé la stessa porta che il dottore aveva imboccato prima di lui, e per alcuni secondi restò in attesa.
Dopo circa un minuto, che lei aveva trascorso guardandosi intorno, avvertì un ronzio, seguito da un rumore meccanico, come di parti metalliche che tintinnano toccandosi fra loro. Il monitor davanti a lei si accese, mostrando una immagine ad alta definizione delle piante dei suoi piedi. Dall'interfono squillò la voce dello scienziato di prima. «Allora, è pronta? Va tutto bene?»

«Sì, tutto bene, sono pronta!» disse Francesca. "Non ci vorrà molto" pensò "Sbrigo questa faccenda e vado a incassare". La ragazza, infatti, non si era sottoposta a questo esperimento per amor di scienza, ma per vil denaro, volendo togliersi alcuni sfizi ed avendo bisogno, per farlo, proprio dei 100 euro che l'equipe aveva offerto ai volontari.

La macchina, di colore argenteo e di forma cuboidale, coi bordi smussi, si aprì leggermente sul fronte, ronzando. Due esile bracci meccanici emersero dalle feritoia, ruotando su loro stessi. Sulle sommità di ciascuno erano presenti due tamponi di tessuto ruvido, dalla consistenza ispida e pelosa, di colore rossastro. Francesca aveva un espressione seria, impassibile. I due tamponi, girando con ritmo lento, presero contatto con le piante dei suoi piedi. Francesca rimase seria. Si morse leggermente il labbro inferiore, buttando un occhio sullo schermo innanzi a sé: poteva vedere i due bracci carezzare meccanicamente la pelle dei suoi piedi piccoli e ben curati, senza smalto né altri vezzi estetici.

Pochi secondi dopo, altri due strumenti emersero dalle feritoie, affiancando i precedenti: si trattava anche in questo caso di due bracci di metallo, sui cui estremi una ruota con denti smussi vibrava, mentre i bracci si muovevano in su e in giù di circa tre centimetri. Non appena giunsero a toccare i piedi di Francesca, questa sussultò vagamente sorpresa. I battiti del suo cuore accelerarono, mentre dalla bocca fuggì un risolino che, seppur appena udibile, non fu ignorato dall'orecchio sensibilissimo dell'intelligenza artificiale. Il ritmo del solletico aumentò leggermente, e così quello del respiro della volontaria.

"Oddio, che succede?" pensò. La sensibilità dei suoi piedi sembrò stupirla. Pur cercando di non emettere un fiato, sentiva che la sua forza di volontà, per qualche strano motivo, stava venendo meno. Il suo corpo la stava tradendo? Non fece in tempo a capacitarsi dello sforzo che tale prova le richiedeva, quando, con grande sgomento, si avvide che dalle fessure del cubo l'ennesima coppia di bracci stava dirigendosi verso le sue estremità indifese: stavolta, le appendici meccaniche erano armate di piume variopinte che vibravano disordinatamente.

«Ahahah!». "No!" pensò lei tappandosi la bocca, mentre l'intelligenza artificiale prendeva a solleticarla ancor più intensamente. I tamponi roteavano ora al triplo della velocità iniziale, e così le rotelle si muovevano percorrendo un tracciato più ampio lungo le sue arcate plantari. Le piume si muovevano, almeno loro, alla stessa velocità. «Ahahahah!» Francesca stava cedendo. Il solletico aumentò ancora. Per di più, le era impossibile reagire in alcun modo, perché, come si è detto, le sue dita erano immobilizzate, e così a lei risultava impossibile corrugare i piedi nel tentativo di aumentare almeno di un po' la propria resistenza.

«Ahahahahah!». Senza interrompere neanche per un istante la tortura, la scatola ronzò nuovamente. Stavolta, fu la sua sommità ad aprirsi, mostrando gli ennesimi marchingegni disposti dagli scienziati per farla cedere...

Continua...

domenica 19 gennaio 2014

La compagna di banco - parte 2

Se ne stava lì, immobile. D'altronde, cosa pretendeva di fare, dove voleva andarsene, legata com'era, con le caviglie e i polsi ben assicurati con dei foulard ai quattro angoli del letto? Inerme, senza gran parte dei suoi vestiti, con il solo abbigliamento intimo ed una benda sugli occhi a schermarla dall'imbarazzo, Sara contemplava silenziosamente il buio forzato in cui quel sottile tessuto la imprigionava, rievocando alla mente le vivide immagini degli eventi che l'avevano condotta a trovarsi in quella situazione.

Saranno passati dieci minuti, forse un quarto d'ora (un quarto d'ora eterno per lei) da quando Alessandro l'aveva lasciata in quella posizione, forse abbandonando la stanza, forse accomodandosi in un canto ad osservarla senza fiatare - lei non poteva esserne sicura. Quell'Alessandro, compagno di scuola all'apparenza amabile, che, come forse la stava osservando ora, così l'aveva osservata, non visto né sentito, senza generar sospetto, mentre si dilettava nel farsi solleticare la pianta del piede da Simone. Da quel Simone che, infranto il muro della timidezza, si era concesso a questo gioco infantile e seducente, proprio lì, in classe, durante la lezione, credendo veramente di non esser notato da nessuno. E invece, Alessandro aveva visto tutto. E registrato tutto, nella sua mente e sul suo telefonino.

Quel filmato parlava chiaro, ed era giunto ineluttabile alla conoscenza di Sara. Alessandro, un giorno, l'aveva chiamata da parte con aria del tutto innocente, e le aveva parlato dell'esistenza di questo video. Glielo aveva mostrato con fare spavaldo, informandola del fatto che una copia era stata già salvata nel suo computer, e che avrebbe fatto il giro della scuola, magari della città. A meno che...

Sara non poteva permettersi questo smacco. È vero, non c'era nulla di male nell'essersi fatta solleticare: si trattava di un gioco innocente, anche se si era consumato fra le mura di un'aula universitaria. Eppure qualcosa la bloccava, un timore recondito che la teneva buona come e più di quanto non fossero in grado di fare i foulard che ora la incatenavano al letto di Alessandro. Sara non poteva permettersi, per ragioni che non capiva del tutto nemmeno lei, che il pubblico erompesse così nella sua intimità, mostrandone un estratto come quella scena immortalata sul cellulare di un compagno di classe.

E così aveva finito col cedere a quello che a tutti gli effetti era un ricatto da parte di Alessandro. Il video non sarebbe diventato di dominio pubblico, a patto che Sara concedesse ad Alessandro di solleticarla a sua volta. Non come già aveva fatto Simone, no... Sarebbe stato molto peggio: tutto sarebbe andato secondo le regole, le fantasie ed i capricci di Alessandro.

«Allora, sei pronta?» La voce di Alessandro ruppe quell'interminabile silenzio, facendo ripiombare Sara nella buia realtà di quel momento. «Ti prego...» fece lei, docile. Ma quella mansuetudine non poteva che stimolare ulteriormente Alessandro, che si muoveva intorno al letto sfregandosi le mani. Una reazione violenta, da parte di lei, avrebbe probabilmente sortito lo stesso effetto: Alessandro era determinato e, una volta dato inizio alle danze, non si sarebbe fermato così facilmente. Lei, in cuor suo, lo sapeva.

«Vedrai che ti piacerà. Lo sappiamo già che ti piace.» disse Alessandro, sfiorando con l'indice ed il medio il costato di Sara. Questa sussultò immediatamente, inarcandosi con un flebile gemito. «No no no...»
«Ti do un consiglio» disse Alessandro con il suo fare sicuro «Non urlare. Casa mia è isolata, e qui non c'è nessuno che possa sentirti. Tanto vale che ti godi il momento, e che ti concedi una sana risata liberatoria». Ciò detto, prese a solleticarle la pancia con entrambe le mani, indulgendo subito al di sotto della linea delle costole ed intorno all'ombelico. Lei serrò le labbra per trattenere un accesso di risate, il che le permise solo di camuffare questo con un suono più nasale, come una specie di lungo starnuto. Inutile dire che questo eccitò Alessandro, che pinzò con maestria i fianchi di lei, facendoglieli vibrare sotto il movimento delle sue dita sottili. Sara, a quel punto, proruppe in una risata da manuale. «Ahahahahah! Basta, ti prego!» strillò con tono supplichevole. «Basta?» lui non volle saperne «Ma se non abbiamo ancora neanche cominciato?» e detto questo guizzò nuovamente verso l'ombelico indifeso della sua vittima.

D'un tratto, lui si arrestò. Sara prese fiato, ansimando vistosamente. «Adesso» esclamò lui «ti solleticherò il piede sinistro. Al mio tre. Uno, due...»
Il piedino affusolato di lei si intirizzì, flettendosi mentre numerose piegoline rosate si formavano sotto la pianta. «Tre!» La mano destra di lui prese a solleticarle la pianta furiosamente, mentre la sinistra andava a mettere in trazione le dita di lei per distendere la pelle del piede e rendere così questo ancor più sensibile e vulnerabile. «Ahahahahah! No, noo, nooo!»

Un'altra pausa. «Adesso invece» riprese lui, con tono professionale «ti farò il solletico sotto il piede destro. Al mio tre. Uno, due e...» Sara si preparò nuovamente, irrigidendosi tutta. Ma lo stimolo non venne da dove lei si aspettava. Non dal piede destro, ma da entrambe le ascelle, sotto alle quali Alessandro aveva ficcato le mani, facendo scivolare le sue dita come tentacoli in un movimento ritmico che le faceva ballare i piccoli seni. «Ahahahahah nooo ahahah ti scongiuro ahahahah» Sara fu squassata dal solletico, reso ancor più irresistibile dall'effetto sorpresa. Sembrava che questo gesto inatteso avesse moltiplicato la sua sensibilità di cento volte. E questo Alessandro lo sapeva. Sapeva che, in questo modo, il rapporto di potere nei confronti della sua sottomessa si sarebbe intensificato, diventando assoluto. Ma questo era solo l'inizio.

«E così, mi scongiuri, eh?» disse Alessandro, interrompendo per un istante la tortura. «E se ti dessi una possibilità?» lei voltò il capo nella direzione della sua voce. «Che intendi?» tra sé e sé ringraziava il cielo per la pausa concessale, e sperava di prendere del tempo per riprendersi. Tutto il suo corpo era umido di sudore, mentre il suo petto oscillava in alto e in basso per rubare alla stanza quanto più ossigeno possibile. «Intendo» proseguì lui calmo «che sarai tu ad indicarmi quale sarà la prossima parte del corpo che ti solleticherò» ghignò «e stavolta ti prometto che non barerò. Quindi scegli bene. Personalmente, ti suggerisco di scegliere la parte del corpo che ritieni meno sensibile.»

Questa occasione insperata non mise certo Sara in una condizione più facile. Per la verità, Sara soffriva il solletico un po' ovunque, e ovunque intensamente. Ci rifletté ancora un attimo. «Vuoi che scelga io per te?» chiese lui. «No no no! Ci sono, ci sono!» esclamò lei con voce stridula per il nervosismo. «Le cosce» rispose infine «solleticami le cosce». Facendo mente locale, non ricordava di alcun episodio in cui le sue cosce avessero dimostrato una particolare sensibilità al solletico; certamente, non una sensibilità paragonabile a quella di altri angoli del suo corpo.

«E cosce siano!» concluse lui. Per i secondi successivi, Sara sentì solo il rumore ovattato delle mani di Alessandro intente a rovistare e scartabellare in mezzo a qualcosa, forse una scatola o un bauletto. Poi, d'un tratto, sentì distintamente un click seguito istantaneamente da un ronzio sinistro. «Che cos'è? Che cos'è?» piagnucolò. Lui non disse niente, ma si limitò a poggiarle il misterioso emettitore di ronzio sull'interno coscia, pochi centimetri al di sotto della linea inguinale. La reazione di lei fu istantanea, ed il suono, ora dolce ora sguaiato, delle sue risate echeggiò in tutta la stanza coprendo quello di ciò che, a tutti gli effetti, all'orecchio e al tatto dava l'impressione d'essere uno spazzolino elettrico. «Ahahahahah ahahahahah aiuto Simone, Simoneee eheheh!!»

Cosa avrebbe ceduto lei perché alle mani di Alessandro si sostituissero quelle del suo amico, Simone. Non c'era nessun confronto, infatti, tra le dita di quest'ultimo, così timide e gentili, e quelle di Alessandro, allo stesso tempo sapienti e crudeli. La conoscenza dei suoi punti più sensibili era così vasta e ovvia, e la sua precisione così ferma e chirurgica che ogni singolo sfioramento sembrava far scattare in lei un interruttore collegato direttamente ai suoi polmoni, come un bottone progettato appositamente per rilasciare risate a piacimento di chi lo premesse. «Ahahahahah ahahah» Sara rideva a crepapelle, divincolando ogni arto, flettendo ogni muscolo nel tentativo, vano, di liberarsi dalla morsa dei foulard che la inchiodavano alle sponde del letto. Sebbene fosse allo stremo, le risate non sembravano volersi esaurire tanto presto. Ed Alessandro voleva prosciugarle tutte. Alessandro era solo all'inizio...

sabato 18 gennaio 2014

Ispirato a una storia vera


Quello, per Emanuele, era un giorno speciale. Non speciale come si dice di solito delle giornate buone, o di quelle che spezzano la routine. Era un giorno veramente speciale, perché quello era il giorno in cui una sua fantasia si sarebbe realizzata. Un sogno per tanto tempo covato, pensato, plasmato in innumerevoli e variopinte versioni sarebbe sbocciato dal fondo di un cassetto, trovando il meritato coronamento.

Emanuele conosceva Laura praticamente da una vita. Si erano incontrati al liceo, ora erano due giovani universitari che si erano persi di vista come vecchi amici e che si erano poi ritrovati, scoprendo fra loro qualcosa di più. Formavano coppia fissa ormai da tre anni, ma non erano state sempre tutte rose e fiori. Prima di questo giorno si erano lasciati, o meglio lui aveva lasciato lei, a causa della distanza, e di un viaggio che, facendogli imboccare vie traverse ed inaspettate, aveva messo a nudo le sue debolezze. Ma lui voleva ancora stare con lei, e lei desiderava ancora lui. Dopo esser caduti, si erano rialzati, insieme.

Lui, nel periodo in cui il loro rapporto pendeva in bilico tra l'amicizia e la nostalgia, si era fatto forza e le aveva confessato il suo piccolo segreto, che così aveva smesso di essere solo suo. In confidenza, le aveva detto che amava il solletico, che nel farlo il suo piacere sfiorava l'erotismo, ma che aveva paura a parlarne, perché temeva di non esser capito. Aveva il terrore che, una volta strappato il velo di riservatezza, ogni sua singola azione, passata e futura, sarebbe stata osservata con un'altra lente, scandagliata con sospetto. Nei suoi incubi ad occhi aperti si vedeva giudicato come un viscido, che infanga un gioco innocente, estemporaneo ed amichevole, rendendolo impuro e corrotto.

«Sai cosa» aveva spiegato Emanuele a Laura «io, dentro di me, riesco a tenere separato l'aspetto puramente giocoso da quello anche sessuale. Ma se gli altri non riuscissero a capire? Se io facessi il solletico a un'amica e lei pensasse che ci sto provando? O peggio, se facessi il solletico a un bambino e qualcuno si mettesse in testa che la cosa mi eccita? Non potrei accettare nemmeno il sospetto...»
Laura lo aveva rassicurato, sorridendogli lungamente e facendogli delle carezze. Gli aveva detto che andava tutto bene, che lui non era malato, né tanto meno cattivo, e che aveva già intuito questa cosa, anche se lui il tutti quegli anni non aveva mai avuto il coraggio di parlarne apertamente.

Ora che erano tornati insieme, lui si sentiva più sicuro di sé, più sereno e in pace con se stesso. Pur sempre con molta timidezza, lui le aveva domandato se lei avrebbe accettato di farsi fare il solletico così come le sue fantasie dettavano. Avrebbe anche ricambiato, sottoponendosi alla rivincita di lei, se lei avesse desiderato. Laura non aveva esitato, non si sa se per amore o per curiosità, e gli aveva detto di sì. E quello era proprio il gran giorno.

Casa di Laura sarebbe stata vuota per ore. Lei ed Emanuele si erano dati appuntamento per il primo pomeriggio. Lui le aveva detto che sarebbe arrivato intorno alle tre, ma già mezz'ora prima lei gli aveva scritto un messaggio. «Sbrigati che non sto più nella pelle!» recita. Lui fremeva. Infilò la porta di casa, entrò in macchina e partì alla volta della casa della sua fidanzata.

Quando arrivò, lei lo accolse con un sorriso trepidante. Chiacchierarono per un po' del più e del meno, quasi evitando l'argomento di proposito, non fu chiaro se per stuzzicarsi o perché, in fin dei conti, un briciolo di imbarazzo in questi casi era ovvio e naturale. «Allora... cominciamo?» chiese lui, sorridendo timidamente. «Sì... andiamo di là». Si recarono nella stanza di lei e chiusero la porta. A chiave, per maggior sicurezza, anche se, come si è detto, entrambi sapevano con assoluta certezza che la casa sarebbe stata vuota per tutto il resto della giornata.

I due non persero tempo. Lei si stese sul letto. Aveva già preparato delle sciarpe - aveva tirato fuori tutte quelle che possedeva nell'armadio - così a lui non restava che legarla e bendarla. A proposito di quest'ultimo gesto, Emanuele sapeva che la privazione del senso della vista avrebbe intensificato gli effetti del solletico, e lui voleva proprio che Laura si sentisse pervasa e conquistata da tale irresistibile sensazione.

Eccolo, il suo sogno prender forma materiale. Laura era lì, sotto di lui, sotto le sue mani curiose, pronte a scoprire tutti i suoi punti deboli e a torturarli alacremente. Con estrema delicatezza e con un movimento da principio lentissimo, lui appoggiò le sue mani sotto le ascelle di Laura, facendole scorrere piano sulla pelle chiara e liscissima. Laura sorrideva - addosso solo le mutande e il reggiseno. Con grande sorpresa di Emanuele, non un singolo risolino uscì dalla bocca di lei, che ricordava invece sensibilissima.

Il perché era presto detto: tanta era l'emozione del momento che Laura era eccitatissima e, per qualche ragione legata alla natura ed alla fisiologia di questa ragazza, tale eccitazione la rendeva temporaneamente immune al solletico. Emanuele capì, e decise di accondiscendere al piacere di lei. Così, fece scivolare la sua mano destra dentro le mutande di lei ed iniziò a toccarla amorevolmente, senza distogliere lo sguardo dal suo viso bendato, senza lasciarsi sfuggire nemmeno una singola espressione del suo volto: ricercava, nei movimenti della testa e delle labbra di lei, nel ritmo del suo fiato, tutto il piacere che poteva venirne espresso. Il piacere di lei fu raggiunto quasi istantaneamente e fu immenso, come un'onda che si infrange sulle rocce dopo aver peregrinato lungo tutto l'oceano, ingrandendosi di secondo in secondo.

Ammansito che era il piacere di lei, Emanuele procedette riprendendo là dove si era interrotto, anche per sincerarsi che la sensibilità di Laura fosse tornata ai livelli a lui noti. Era così: non appena Emanuele sfiorò appena le ascelle di Laura con le dita sottili, lei prese a ridere, e a ridere di gusto. Sembrava piacerle, sebbene le braccia e le gambe di agitavano spasmodicamente e lui dovesse tener ferma la ragazza con tutto il suo peso perché questa non si muovesse troppo ed il solletico risultasse, in questo modo, ancor più efficace. Dovette anche tener fermo un braccio di lei e concentrarsi su un'ascella sola, perché ad un certo punto il nodo di una delle sciarpe cedette e la mano di Laura fu così libera di scendere a protezione dei suoi punti più sensibili.

Emanuele era colmo di gioia ed eccitazione, e tanto era superiore la sua posizione che non gli fu troppo difficile riuscire a farle il solletico ovunque anche se lei non era immobilizzata a regola d'arte. Anzi, ai sensi di Laura, le mani di Emanuele apparivano ben più di due: le sembrava in vero di esser torturata da una di quelle figure antropomorfe che è facile reperire nella mitologia indù o in alcuni racconti fantastici.

Ma la parte che Emanuele preferiva era un'altra, e lui, solleticando le ascelle della sua fidanzata, si stava solo mettendo in caldo. Un po' come quando, dinanzi al proprio cibo preferito, si tende a mangiare prima le altre pietanze per concedersi solo alla fine il tempo e la delizia di gustarsi il piatto forte, così Emanuele si era lasciato per ultimi i piedi. Quei piedini bellissimi, morbidi ed estremamente sensibili, i più belli che avesse visto mai, con le dita perfettamente affusolate e facili da manipolare...

Li adorava. Adorava guardarli, e ora avrebbe adorato ancor di più più carezzarne il dorso coi polpastrelli, non senza una punta di docile sadismo, per poi farne impazzire le piante con le unghie, tenute leggermente più lunghe della norma per l'occasione. Ecco che le mani di Emanuele, dal tallone fino alla base delle dita, titillavano furiosamente i piedi di Laura, resi inamovibili da una maglia di nodi che, pur dilettanteschi, erano funzionali allo scopo di non concedere alla ragazza nemmeno un attimo di fiato. Laura doveva ridere tutte le risate che aveva in corpo, doveva ridere come non aveva mai riso, ed essere posseduta da qualcuno come nessuno l'avrebbe mai più posseduta.

Una "dittatura illuminata", quella del solletico. Emanuele non permise che ci fosse tregua per i piedi di Laura, la quale da qualche minuto ormai rideva a crepapelle, agitando senza speranza quell'unica mano che era riuscita a liberare dalla morsa che la attanagliava. Ci mise abbastanza, ma riuscì a dedicare ad ogni singolo dito tutta l'attenzione e la cura che un solleticatore che si rispetti deve alle sue opere, stuzzicandone ora il dorso, ora la base, ora il lato, ora lo spazio nascosto che si rivela non appena stendiamo forzatamente le dita all'indietro. Nessuno strumento fu risparmiato: le mani avevano già il loro ascendente, ma come poteva Emanuele lasciarsi sfuggire l'opportunità di valutare il potere di una spazzola per capelli che scivola sotto la pianta del piede, o della testina di uno spazzolino elettrico che, ruotando in un vorticoso e sinistro ronzio, avvolge ogni singola falange in una danza di risate e di tormento?

La compagna di banco - parte 1


Sara. Sara l'avrà vista ridere un milione di volte, da che la conosceva. Alle battute dei compagni, ai doppi sensi delle frasette su Facebook, alle uscite d'un tratto poco professionali di professori in giacca e cravatta, cui erano tutti troppo abituati ad attribuire in automatico un'immagine di rigore e severità estremi e decisamente esagerati, vuoi per il ruolo, vuoi per lo scarto di età.

Di Sara guardava spesso le foto. Come di altre ragazze, di altre compagne. Ma di lei in particolare. Aveva questo suo pallino per i piedi femminili, pallino che teneva per sé e per nessun altro, e lo affascinava sfogliare gli scatti delle persone, soffermarsi maggiormente su quelli dell'estate. Lui, così timido e curioso, che come nel tentativo di rompere per un po' la sua riservatezza, anche solo per un istante, anche solo per finta, andava alla ricerca di immagini che rubassero quelle piacevoli estremità, quei piedini che per la maggior parte dell'anno se ne stanno ben nascosti dentro le scarpe, che si lasciano solo pensare, fantasticare, facendosi vedere poco o mai. Di lei aveva colto qualche fotografia in spiaggia - giusto un paio in cui si vedevano, appena affiorando dalla sabbia fine, quei piedi così all'apparenza sottili, le dita appena accennate.

Di Sara conosceva la sua sensibilità al solletico. Come per la forma dei suoi piedi, aveva dedotto anch'essa da poche reazioni pubbliche a fugaci contatti coi loro compagni, così giocosi e innocenti. Per un istante, aveva sperato che quelle dita fossero le sue. Ma l'idea che qualcuno potesse cogliere sul suo volto un guizzo di soddisfazione, di piacere, sì, gli incuteva gran timore: aveva paura, in fondo, di non esser capito, di esser deriso o guardato con disgusto per quella che era la sua intimità, la sua natura, e che alla fin fine era qualcosa di semplice, di spontaneo e di innocuo. Che poteva farci lui, si domandava spesso, se fin da piccolo l'atto di fare il solletico a qualcuno gli piaceva, lo entusiasmava, lo divertiva? Che poteva farci se si sentiva attratto dai piedi femminili, se vi si soffermava con lo sguardo, quando magari altri ragazzi avrebbero al suo posto posato gli occhi su un bel seno, o su un fondoschiena? Che male c'era, poi?

Quel giorno, Sara gli si sedette vicino, a lezione. Capitava spesso. Quasi sempre, in effetti, perché erano molto amici. Lei era amica sua, e lui amico suo, e sebbene lui non potesse negare di apprezzare la giovinezza e l'armonia che si affermavano nell'aspetto di lei, non poteva dirsi propriamente attratto. Eppure, avrebbe avuto curiosità di vedere i suoi piedi, di solleticarglieli. Sentiva che se c'era qualcuno che poteva capire il suo stato d'animo, era la sua amica.
La lezione non era delle più tediose, anzi non si poteva certo negare che fosse interessante, ma quel giorno in particolare lui si era fatto distrarre. Sedeva nella seconda fila di banchi (la prima, al solito, era vuota), alla sinistra di lei; lei piegata sugli appunti presi a velocità insostenibile, con la gamba destra accavallata sulla sinistra, la caviglia sul ginocchio. La sua Converse blu, numero di scarpe 39, oscillava nervosamente da quella posizione. Lui sbuffò appena, con discrezione - non voleva certo esser beccato dal docente.

«Quanto manca?» chiese. Lei prese fiato, sollevando il capo dal quaderno e la penna dal foglio, sbirciò il cellulare puntualmente nascosto sotto il banco. «Dai, quaranta minuti...». Il piedino si arrestò. Lui le fece un mezzo sorriso, poi riprese a guardare avanti, verso le slide che scorrevano alle spalle del professore di Storia Medievale, e con nonchalance pizzicò uno dei lacci di quella scarpa Converse-numero-di-scarpe-39, così alla sua portata, così vicina alla sua mano, e tirò, snonandola.

«Daiii!» fece lei sottovoce, divertita. «Sta' a sentire sennò poi vai male all'esame» rispose lui, divertito a sua volta, a sua volta sottovoce. Agguantò, sia pur con delicatezza estrema, la parte posteriore della scarpa, e tirò, sfilandola via dal tallone, che si rivelò coperto da un sottile fantasmino di cotone turchese - il malleolo ed il tendine d'Achille in vista sotto il risvolto del jeans attillato e morbido. «Ma che fai?» fece lei, sempre curandosi di restare al di sotto della soglia dell'udibile. Nello sguardo di Sara non v'era traccia di quello sgomento che lui temeva di leggere nelle espressioni delle persone quando, a volte, fantasticava sul suo "outing". Anzi, sembrava che Sara gradisse il gioco a cui stavano, tutt'e due, giocando. Senza lasciar la presa sulla scarpa, lui allungò appena il medio della stessa mano, ed uncinò il calzino, sfilandoglielo: ora il tallone, liscio e roseo, si mostrava del tutto scoperto. Lei strabuzzò gli occhi, ma sempre sorridendo. Lui sentì un sussulto al cuore, come di un timore che si mescola alla gioia di poter essere, almeno per un po', almeno con qualcuno, naturalmente se stesso. «Seria! Il prof ti guarda...» bisbigliò.

Sara avrebbe potuto ritrarre a quel punto la gamba, ma non lo fece. Lui non si fece scappar l'occasione: prese nella mano sinistra la scarpa ed il calzino e sfilò tutto via, mentre con la destra, come nulla fosse, riprese in mano la penna a sfera e riprese a scarabocchiare il suo quaderno, fingendo di appuntarsi anche le pause del professore. Le sue labbra tremarono leggermente per l'emozione difficilmente contenibile: ora vedeva, con la coda dell'occhio o abbassando di quando in quando lo sguardo, la pianta del suo piede numero-di-scarpe-39 in tutta la sua bellezza. Quelle dita, così piccole e diritte, che tanto si erano celate al suo sguardo scivolando nella sabbia, erano ora lì, nude alla sua vista, sotto la sua mano, alla sua mercé.

Le accarezzò il piedino e lei, che come lui ormai fingeva di prendere appunti, fece un risolino chiaro ma appena percettibile. Le sue spalle si mossero all'insù, dimostrando una sensibilità al solletico a fece vibrare lui. Nessuno, dalla posizione in cui erano e vista la struttura delle file di banchi dell'università, poteva vedere alcun che di ciò che accadeva appena a pochi metri di distanza: tutti, o perché distanti, o perché molto presi dalla lezione o dai singoli passatempi trovati da ciascuno per ammazzar la noia, avevano gli occhi e le orecchie da un'altra parte.

«Che fa, signorina, ride?» chiese lui, scimmiottando compiaciuto la voce del professore, mentre le sue dita pizzicavano piano i polpastrelli delle dita del piede di lei. «Simone, no, dai, dai» replicò lei. «È importante sapersi concentrare in ogni situazione» disse lui con tono affabulatorio e fintamente saccente. Lei sapeva che questa era una sfida, nel gergo della loro amicizia.

Le unghie di lui strisciarono lungo tutta la pianta del piedino di lei, dall'avampiede fino al tallone, come una frotta di disordinati sciatori che slittano sul un manto di neve morbida e appena umida. Lei si mordicchiò il labbro inferiore per nascondere a lui come al professore che una risata, dal di dentro di lei, voleva prorompere con prepotenza; il piedino si agitava ora con frenesia, le dita che si aprivano e poi flettevano e poi si aprivano di nuovo, spinte dallo stress del solletico, senza però che Sara ne volesse sapere di staccar la caviglia dal ginocchio su cui era appoggiata. Forse perché aveva preso a cuore la sfida? Forse perché, in fondo, a lei il solletico piaceva? Queste le domande che scorrevano nella mente di lui.

Continua...